Tra i progettisti più fantasiosi e poliedrici del ‘900, Bruno Munari (Milano, 1907 – 1998) è uno dei rari maestri che ha saputo imprimere la sua traccia nella storia dell’arte, del design e della grafica, sfuggendo a ogni tipo di classificazione. Nella sua ricerca ininterrotta tra discipline diverse, Munari si è dedicato alla pittura, alla scultura, all’architettura, alla fotografia e ai libri, diventando noto soprattutto per la sua attività didattico-creativa pensata per i bambini.
Non a caso, definito dal critico d’arte francese Pierre Restany “il Leonardo e il Peter Pan del design italiano”, Munari era solito raccontare che da piccolo, non avendo a disposizione molti giocattoli, se li costruiva da solo, replicando e talvolta inventando cose. Nel suo lavoro, la dedizione per la sfera infantile si è espressa nei laboratori dedicati ai bambini in scuole e musei di tutto il mondo, e nei giochi didattici, come le strutture pieghevoli, gli oggetti da montare, gli strumenti musicali e i libri dedicati a coinvolgere i bambini nel mondo delle forme e dei suoni.
Dalla grafica al design, Munari incarna un gusto contemporaneo che oggi riscopre la multidisciplinarità e gli outsider del XX secolo, i maestri che hanno cambiato la storia della progettazione, e la cui opera non passa mai di moda. Anche se non potremmo definirlo davvero un outsider — i suoi progetti sono oggi più che mai celebrati e i suoi pezzi più rari raggiungono in asta prezzi notevoli — Munari ha portato avanti una riflessione sul design che si affranca dall’idea di globalizzazione, un pensiero che ha senz’altro dovuto fare i conti, a suo tempo, con le incertezze e le difficoltà incontrate dai progettisti che si battono per i propri ideali.
La prima folgorazione è l’opera futurista di Fortunato Depero e Giacomo Balla, dalla cui osservazione Munari da vita alle sue Macchine Inutili del 1933, forme che taglia e sospende a fili in movimento che ne cambiano la percezione nello spazio. Ad ispirare le forme e i volumi che Munari adotta nei suoi progetti c’è poi la semplicità delle geometrie del Bauhaus, affiancata dal pensiero giapponese che sta alla base dell’arte degli origami, suggestioni che si ritrovano nei suoi Libri Illeggibili, nati da fogli tagliati e piegati, composizioni di carta e colori che possono cambiare continuamente a seconda della volontà del lettore.
La cifra stilistica degli oggetti di Munari sta nell'equilibrio tra tecnica e spontaneità, serietà e aspetto ludico, che è frutto di una progettualità finemente studiata. Pensiamo al posacenere Cubo: nella metà degli anni '50, dopo l’incontro con Bruno Danese e Jaquelin Vodoz, i pilastri del brand di oggetti per la casa Danese, Bruno Munari propone alla ditta di realizzare il posacenere: un insuccesso, ma Danese continua a produrlo. Con il tempo però, Cubo diventa un best seller della ditta, così come i porta matite o l’iconica lampada Falkland firmati Munari, classici del design tuttora in produzione, apprezzati per il connubio tra semplicità, eleganza e funzione, che li rende oggetti che sopravvivono al cambiamento delle mode. Il sodalizio creativo tra Danese e Munari è stato la fucina di molteplici oggetti sospesi tra arte e design, che hanno contribuito a forgiare l’identità del brand.
Perché quando si parla di Bruno Munari si parla di oggetti tra arte e design? Osservando il paravento a spiffero progettato da Munari per Zanotta nel 1989, scopriremo che esso deriva dalla serie di Sculture da Viaggio, realizzate da Munari alla fine degli anni '50 (alcune di esse appaiono nella foto): opere in legno, in metallo, in plastica, le più semplici ritagliate nella carta, sono opere che tendono a sfuggire alle classificazioni, a seconda di come le si guardi o le si utilizzi: si tratta di opere d’arte ambientale (nella versione in grandi dimensioni)? Di sculture? Certamente, ma anche di arredi. Fissi oppure mobili: perché, come spiegava il designer «hanno la funzione di creare, in una anonima stanza d’albergo o in un ambiente in cui si è ospitati, un punto di riferimento dove l’occhio trova un legame con il mondo della propria cultura».