Un pomeriggio di Novembre, sotto un cielo grigio e con un’aria leggermente pungente che lasciano immaginare l’arrivo dell’inverno, andiamo ad incontrare l’architetto Giorgio De Ferrari, che ci accoglie nella sua villetta dei primi del ‘900, una casa con pochi mobili ma ben selezionati. Il soggiorno dove ci mettiamo a conversare ha due finestre che affacciano su un giardinetto con un maestoso albero di cachi, gli stessi rappresentati sul soffitto decorato dello stesso, sulle pareti ci sono svariate opere di artisti moderni, con pezzi di Pistoletto, Lichtenstein, Mondino, Allen Jones.
Come è iniziato il tuo lavoro nel mondo del Design?
Mi sono laureato nel ’60, al Politecnico di Torino nella facoltà di Architettura. La disciplina “Design” all’epoca non esisteva, né come corso di laurea, né come materia di corso; esisteva la disciplina “Arredamento” nella quale ho fatto il mio primo progetto per l’abitare con Aimaro Isola allora docente: il corso partecipava ad un concorso bandito dalla Abet Laminati per promuovere l’impiego del laminato plastico, l’innovativo materiale che sostituirà il lamierino metallico nelle diffusissime “cucine all’americana”. Laureato, sarò nel prestigioso “Studio Gabetti e Isola” per oltre cinque anni.
Quindi cosa era il Design se non esisteva il Design?
Per ”Design” si intende la progettazione di oggetti d’uso da prodursi in serie con forme attente a funzione, espressione, innovazione. Detto termine (oggi davvero inflazionato) sottintende l'aggettivo “industriale”, che ne precisa le modalità produttive. La pratica del Design, l’interesse e la stessa sua denominazione, da noi in Italia, all’inizio degli anni ’60, erano ancora poco presenti come dimostra la ridotta presenza delle strutture formative della disciplina: l’ISIA (Istituto superiore per le industrie artistiche) a Monza e alcuni istituti privati, solitamente legati a specifici settori produttivi. Da quegli anni molto è cambiato. Il Design per l’abitare, fra quelli cui solitamente si fa riferimento in merito alla straordinaria affermazione del prodotto italiano, è nato e si è sviluppato, particolarità solo nostrana, nel mondo degli architetti: 15 sono oggi le sedi universitarie di Architettura che hanno attivato specifici corsi di laurea e anche l’offerta didattica privata ha assunto dimensioni e importanza inaspettate. Con qualche perplessità: a confronto degli oltre 2000 titoli di studio annuali rilasciati, nelle novità presentate dalle primarie 20 produzioni nazionali all’ultimo Salone del Mobile di Milano, quelle a firma italiana non raggiungevano il 20% ! Ma, negli anni, si riscontra una consistente evoluzione sia in merito ai settori merceologici coinvolti (D. per l’abitare, D. per la mobilità,…) sia in merito alle fasi interessate: accanto alla consueta attività progettuale e di ricerca riguardante il “come fare” si sviluppano le innovative ricerche e attività sul “cosa fare” (D. ecologico, D. strategico D. dei servizi,…)
L’eccellenza del Design italiano è tale per merito del designer o dell’imprenditore?
Il bello degli anni gloriosi è che sovente c’era una grande, particolare condivisione tra progettista e imprenditore. Esemplare è il caso di Dino Gavina che ai suoi grandi progettisti suggeriva cosa fare e perché, creava un duraturo, vero e proprio rapporto di lavoro comune e amicizia. Talora è il designer che propone all’azienda di produzione idee che potranno essere diversamente sviluppate; talora è il settore commerciale dell’azienda che, intendendo integrare o rinnovare il catalogo, incarica il professionista fornendogli le specifiche del caso. Si ritiene la prima ipotesi essere quella maggiormente portatrice di innovazione. Il Salone del mobile è importante perché a Milano si è organizzato un evento straordinario: seppure il progetto italiano non abbia più le dimensioni del passato, l’imprenditoria italiana è ancora una grande cosa. E’ opinione condivisa che l’attrattiva italiana e la conseguente notevole presenza di progettisti formatisi altrove sia attribuibile alla nostra imprenditoria cui si riconosce coraggio, preparazione tecnologica, interesse all’innovazione.
Come si progetta un oggetto? Esiste un metodo preciso o ci sono diverse scuole di pensiero?
Ci sono imprenditori che, sul tema convenuto, chiedono e si attendono dal progettista incaricato più proposte, sia pure embrionali, in alternativa fra le quali poi scegliere quella da sviluppare. Questo è anche quanto richiesto allo studente in non poche scuole di Design. Altro approccio, che personalmente condivido e adottavo nella didattica al Politecnico di Torino e praticato da grandi nomi, è sostanzialmente il contrario: un’unica proposta, risultato del rigoroso approfondimento di tutti i requisiti richiesti.
Il giovane Colombo (Joe, ndr) in modo un po’ paradossale, sosteneva che il progetto avrebbe dovuto rispondere unicamente alle istanze funzionali (“niente stilismi ed estetismi!”) e che se il problema fosse stato studiato in modo radicale e profondo, la definizione oggettuale risultante sarebbe ostanzialmente la stessa, indifferente dalla personalità che la ha definita.
E a questo punto da una parte troviamo il “designer” che progetta senza conoscere chi sarà l’utilizzatore e dall’altra parte l’ ”arredatore” che progetta per uno spazio e per una persona che bene conosce. Questa la filosofia di Carlo Mollino che privilegiava il progetto per un luogo definito, per utilizzatori ben conosciuti e amici. Visioni agli antipodi: Joe Colombo i suoi lavori non li chiamava “mobili” o “arredi” ma “attrezzature” proprio per sottolineare le privilegiate finalità funzionali e la (apparentemente) generica espressività.
Per esempio, la tua lampada “Piega” prodotta negli anni ‘70 e ora rieditata per Stilnovo, che hai presentato all’ultimo Salone del Mobile, come è nata?
Si doveva fare la fornitura di lampade per le camere di un collegio universitario. Era richiesta robustezza, manutenzione ridotta, facilità di spostamento, appoggio sicuro, spesa contenuta. La tipologia non era stata reperita. La Stilnovo, allora azienda leader e con un particolarmente ampio catalogo (motivo per cui attualmente è molto presente nel Modernariato) privilegiava nei suoi modelli l’impiego del lamierino metallico stampato o imbutito con tipologia costituita da base, braccio e fonte luminosa. Pensai che la lamiera, leggera ma robusta, era idonea alle nostre esigenze ma non lo erano la tipologie e la costosa tecnologia. Forse ancora ricordando Joe Colombo che, sempre un po’ paradossale, raccontava come un buon modo per iniziare il progetto fosse il considerare quello che era stato fatto e poi fare il contrario, pensai ad una bandella metallica che raccogliesse le tre componenti, diversificate da economiche piegature di cui una, inclinata a 45°, indirizzasse il fascio luminoso e ne caratterizzasse l’espressività. Nella riedizione attuale la Piega è stata ulteriormente semplificata negli aspetti espressivi e aggiornata in quelli illuminotecnici con l’adozione della fonte LED.
Trovi che al giorno d’oggi i materiali per produrre sono più economici rispetto al passato?
Non credo. Può sembrare così perché un tempo si impiegava più vetro, più legno mentre attualmente si utilizzano sempre più materiali di sintesi. Ma quelli erano i materiali disponibili mentre attualmente oltre l’oggetto si può pensare di progettare anche il materiale costitutivo che sarà più performante di quello della tradizione. Allo stesso tempo, certamente, bisogna ammettere che va perduta la magia dei materiali naturali intrinseca alla artigianalità, dove l’uomo ci aveva messo mano e, guardandoli ti viene naturale il toccarli. Ora è diverso, la magia è da cercarsi altrove.
Ma quindi, tu che sei architetto e designer, cosa preferisci?
Noi, come studio, ci siamo spostati dalla progettazione del disegno industriale per l’abitare al disegno industriale per la città. Nel settore, il nostro progetto più riuscito e noto è forse quel getta rifiuti della serie Sabaudo adottato da molte città sia in Italia che all’estero, specie nelle loro parti auliche: è solitamente presente negli interventi ambientali di Renzo Piano e apprezzato dalle Amministrazioni in quanto, pur essendo ampiamente seriale è personalizzabile con il facile inserimento nello stampo per la fusione in alluminio della scocca, di specifici stemmi e loghi. Il Design dell’abitare è divertente: vivi i Saloni, un po’ come la Moda ha una componente ludica molto forte. Puoi fare, con una certa facilità, sperimentazione in quanto, se si esclude la costosa tecnologia dello stampaggio ad iniezione, impiega tecnologie di costo contenuto che ti consentono di effettuare utili test senza correre grandi rischi.
Il Design: tempo fa, un periodico del settore chiese ad un consistente numero di addetti ai lavori una breve, personale definizione di Design. La mia: “ E’ in assoluto l’attività umana con il più sfavorevole rapporto fra reddito economico e impegno creativo. Però è bello”.